L’occasione è stata la COP28 di Dubai, ma in realtà i cinque “consigli” per la riuscita dell’ennesimo summit sui cambiamenti climatici che sono contenuti in un approfondimento pubblicato sul sito di Wood Mackenzie vanno ben oltre l’evento nella penisola arabica.
Preambolo dell’articolo è una considerazione non certo nuova, ma non per questo meno drammatica: “Il 2023 sarà l’anno più caldo mai registrato del pianeta, mentre crescono gli avvertimenti sull’impatto catastrofico del riscaldamento globale”. E così, le prospettive di Wood Mackenzie prevedono un percorso di riscaldamento di 2,5°C entro il 2100, ben al di sopra degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, con il quale si è cercato di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi.
Che le cose non si stiano mettendo bene lo mostrano i tre scenari presi in considerazione da Wood Mackenzie:
Infatti, soltanto il primo, denominato Net Zero, permetterebbe di contenere in un grado e mezzo l’innalzamento delle temperature, ma presuppone che già per la metà di questo secolo si arrivi all’azzeramento delle emissioni nocive, il che appare purtroppo sempre più difficile da realizzare.
C’è poi il Pledges Scenario, che ipotizza un surriscaldamento globale non superiore ai due gradi per la fine del secolo a condizione che vengano tradotti in pratica – fatto tutt’altro che scontato – gli impegni assunti durante la COP26 di Glasgow svoltasi due anni fa.
Infine, lo scenario Base Case che basandosi sulla semplice evoluzione delle attuali politiche di decarbonizzazione degli stati nazionali preconizza il disastro, ovvero un aumento della temperatura di due gradi e mezzo per il 2100.
Da qui, appunto, un elenco di raccomandazioni affinché si possa imprimere la necessaria ed imprescindibile accelerazione alla transizione energetica globale ed evitare il deteriorarsi della situazione climatica, le cui avvisaglie peraltro sono già ben visibili sotto forma dell’intensificarsi degli eventi atmosferici estremi, oltre che con il costante aumento delle temperature.
Come detto, sono cinque i fattori su cui andare ad incidere per ottenere dei risultati concreti nell’abbattimento delle emissioni climalteranti:
Nell’analisi di Wood Mackenzie ci si sofferma su un punto destinato a fare la differenza nella transizione energetica, ovvero il rapporto pubblico-privato, quest’ultimo inteso come il sistema industriale dal quale proviene una quota preponderante delle emissioni globali.
“I governi – si legge – devono trovare il modo di imporre ai singoli settori dell’economia l’onere di pagare per emettere. Le tasse sul carbonio e i prezzi del carbonio sono alcuni dei modi più convenienti per raggiungere questo obiettivo, ma sono tutt’altro che universali. Le alternative includono una regolamentazione più severa e la riduzione dei sussidi ai combustibili fossili”.
Un altro elemento cruciale è quello della decarbonizzazione nei Paesi in via di sviluppo, dove la carenza tecnologica facilita inevitabilmente il ricorso ai combustibili fossili per soddisfare la domanda energetica interna. Per questo diventa cruciale garantire l’accesso al capitale a basso costo per questi Paesi, dove i tassi di indebitamento possono arrivare fino al 10% rispetto alla forbice fra l’1% e il 4% che invece caratterizza le nazioni più ricche.
Fin qui da parte dei Paesi sviluppati sono stati stanziati, a partire dal 2009, cento miliardi di dollari all’anno a favore di quelli in via di sviluppo per la mitigazione delle emissioni e il contrasto al cambiamento climatico. Ma occorre fare di più, anche considerando che l’erogazione effettiva di queste risorse è spesso stata inferiore a quella stabilita. Per accelerare su questo fronte un ruolo fondamentale potrà essere rivestito dal Fondo Monetario Internazionale.
L’analisi di Wood Mackenzie punta poi il dito verso un meccanismo che, seppur valido in termini generali, va completamente riformato in quanto il suo attuale cattivo funzionamento si riflette poi sull’attendibilità degli NDC (acronimo di Nationally Determined Contributions), vale a dire gli impegni nazionali per la riduzione delle emissioni climalteranti.
Si tratta del mercato dei carbon credit, acquistabili dalle imprese a grande impatto ambientale che vogliono compensare le emissioni di gas a effetto serra attraverso iniziative green. I proventi dei carbon credit servono a sostenere i progetti di decarbonizzazione che vengono attivati nei Paesi in via di sviluppo, ma “la loro contabilità rappresenta una zona grigia, con l’attuale mancanza di trasparenza che limita il valore dei crediti e soffoca lo sviluppo del mercato”.
Da qui la necessità di introdurre una nuova regolamentazione del mercato.
Fatto salvo che ancora per vari anni molte attività industriali continueranno ad utilizzare i combustibili fossili per alimentare i propri processi produttivi, un elemento su cui agire per ridurre il loro impatto ambientale e climatico è quello di tagliare le emissioni nocive durante l’attività. “In questo – si legge – i governi non sono stati abbastanza severi: gli obiettivi di riduzione sono in gran parte volontari o legati a target generali e non specifici”.
Infine, l’ultima raccomandazione contenuta nell’analisi di Wood Mackenzie è più “impalpabile” ma non per questo meno importante. Se da un lato viene sottolineato come “l’accordo di Parigi è stato miracoloso nell’allineare Paesi e programmi disparati verso uno scopo comune”, dall’altro lato si riscontra che “sette anni dopo, quelle buone intenzioni rischiano di naufragare nelle realtà economiche e politiche”. Occorre quindi ripristinare quel clima di fiducia sulla transizione energetica e la decarbonizzazione che rappresenta la base per il successo delle politiche green.