Da anni si parla dell’idrogeno verde come una delle possibili soluzioni al problema della decarbonizzazione. Costi elevati, tecnologia ancora in fase acerba e qualche ulteriore riflessione ambientale ne hanno però frenato lo sviluppo. Carbon Tracker – una non-profit composta da team di esperti finanziari, energetici e legali che lavora per limitare le future emissioni di gas serra – ha presentato un report che racconta come il conflitto tra Russia e Ucraina stia cambiando questo stato di cose accelerando notevolmente l’adozione dell’idrogeno verde. Non mancano le difficoltà e le ombre, ma questo specifico momento storico potrebbe davvero rappresentare l’opportunità per incrementare la produzione e l’utilizzo di questo vettore energetico.
Contrapposto all’idrogeno grigio (prodotto attraverso il “reforming” del gas metano) e all’idrogeno blu (prodotto allo stesso modo ma prevedendo lo stoccaggio della CO2 che si forma durante questo processo), quello verde si ottiene attraverso l’elettrolisi, che se realizzata utilizzando fonti energetiche rinnovabili ha impatto zero.
L’innalzamento del prezzo del gas, causato principalmente dalla guerra in Ucraina, e l’instabilità dei mercati hanno portato nel giro di pochi mesi a investimenti globali per circa 73 miliardi di dollari nello sviluppo della produzione di idrogeno verde.
Nel contempo, la stessa Carbon Tracker prevede che entro il 2030 le attività di produzione dell’idrogeno “sporco” potrebbero veder perdere l’equivalente di 100 miliardi di asset. Le nuove politiche e strategie di investimento potrebbero invece portare a una crescita di quello green di circa il 300 per cento entro lo stesso anno.
Al momento, a muoversi nella direzione dell’idrogeno verde sono stati essenzialmente 25 Stati, principalmente dell’emisfero nord (con in testa, nell’ordine, Germania, Marocco, Stati Uniti, Francia e Portogallo), ma secondo il report entro i prossimi 30 anni l’emisfero sud crescerà nella produzione fino a raggiungere una quota del 50%. In questo caso, protagonisti dovrebbero essere soprattutto Sudafrica, Marocco e Cile, i cui quantitativi sarebbero comunque per la maggior parte destinati all’esportazione.
In questo processo di “riconfigurazione” del mercato, la parte del leone la fanno i prezzi del gas e quelli dell’energia elettrica. I primi hanno portato i costi di produzione dell’idrogeno grigio in Europa a 7,6 dollari al chilo, ovvero il 50% in più rispetto a quello verde. In Asia la differenza si ferma al 29% in più, e l’idrogeno blu ha costi superiori rispetto al verde del 35%, mentre negli Stati uniti i costi si equivalgono. Il prezzo dell’energia elettrica da fonti rinnovabili influenza invece il costo finale dell’idrogeno verde, che oggi varia tra 3,8 e 5,8 dollari al chilo.
L’obiettivo nello scenario attuale è vedere queste cifre scendere fino a due dollari al chilo, o anche meno, entro il 2030. Per riuscirci, il costo dell’energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili (FER) dovrà attestarsi intorno ai 25 dollari per megawattora. Questo porta con sé una conseguenza: gli investitori privati, il cui apporto potrebbe dare un’ulteriore e fondamentale accelerata alla produzione di idrogeno verde, potrebbero non trovare attraenti queste cifre.
Secondo Carbon Tracker, quindi, avrebbe senso ipotizzare degli incentivi, definiti “ragionevoli”, per spingerli su questa strada. Negli Stati Uniti, per esempio, è stato introdotto di recente l’Inflation Reduction Act (IRA), che offrirà incentivi pari a 3 dollari al chilo, consentendo al prezzo dell’idrogeno vendere di scendere dagli attuali 4,5 dollari a meno di due.
Detto delle prospettive, non bisogna ignorare le criticità. La prima è legata agli sprechi. Oggi si calcola che tra il 30 e il 35% dell’energia necessaria a produrre idrogeno si perda lungo la catena produttiva.
Un’ulteriore quota, compresa tra il 13 e il 25% viene persa durante la liquefazione o la conversione in altri vettori, come l’ammoniaca. Infine, tra il 10 e il 12% dell’energia dell’idrogeno stesso è necessaria per il trasporto del prodotto alla destinazione finale. Come si vede, in questa filiera c’è molto lavoro da fare per ottimizzare l’efficienza complessiva.
Il secondo aspetto è legato alla protezione ambientale, perché non è vero che – nonostante l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili – la produzione di idrogeno verde sia a impatto “zero”: se lo è dal punto di vista della CO2, non altrettanto vale per l’uso dell’acqua (potabile o comunque desalinizzata) quando si ricorre all’elettrolisi. Per ottenere un chilo di idrogeno verde servono infatti almeno 9,3 litri di acqua, il che nel medio e lungo termine potrebbe essere un problema per alcune zone del mondo.
Partendo dai dati di crescita stimati dalla IEA – International Energy Agency, Carbon Tracker ritiene che entro il 2050 il volume totale di acqua dolce richiesto supererà probabilmente del 25% l’odierno consumo globale. Un report pubblicato da WRI – World Resource Institute evidenzia che 17 Paesi sono esposti al rischio di un’estrema scarsità d’acqua, tra cui quasi tutti quelli del Medio Oriente e del Nord Africa. Da notare che in questo l’elenco compare anche San Marino, mentre l’Italia è inserita in quello dei 27 Paesi dove è prevista un’elevata scarsità, insieme a Spagna, Portogallo, Grecia e Belgio.
Il report di Carbon Tracker si chiude sottolineando che sul breve e medio termine l’utilizzo di idrogeno verde dovrebbe concentrarsi sui settori in cui già oggi è presente, ovvero in agricoltura e nell’industria pesante, piuttosto che in ambiti dove la sfida per abbattere le emissioni è ardua (per esempio l’industria dell’acciaio, i trasporti pesanti, le spedizioni o il settore minerario). Per poter estendere l’impiego di idrogeno verde bisognerà prima attendere che l’evoluzione tecnologica faccia importanti passi avanti per abbattere le inefficienze e aiutare a contenere i consumi idrici.
Il passo successivo potrebbe essere quello di utilizzarlo per compensare i futuri problemi di produzione energetica a intermittenza causati dal sempre più elevato ricorso a fonti rinnovabili come il solare e l’eolico, che, per loro natura, non possono garantire una produzione costante. Solo dopo che l’idrogeno avrà soddisfatto le esigenze di questi settori a priorità più elevata e che le sfide evolutive saranno state superate si potrà pensare all’applicazione su larga scala in nuovi ambiti. Ma questo, secondo Carbon Tracker, richiederà ancora diverso tempo.