Il 62% delle imprese italiane ha implementato almeno un’iniziativa circolare: l’interesse c’è, non in tutti i settori, ma possiamo dire che la transizione circolare è innescata. Se la prima parte del Circular Economy Report 2021 ha gettato le basi strategiche e metodologiche dell’analisi sull’attuale mercato, la survey condotta sulle realtà industriali italiane restituisce un quadro più realistico di questo processo.
Un percorso ormai avviato, auspicabile e inevitabile, che porterà le aziende verso il nuovo paradigma di sostenibilità rigenerativa. I tempi e i risultati, però, sono ancora tutti da scrivere.
Parlare di economia circolare nell’industria – lo abbiamo visto nell’articolo precedente – significa superare il tradizionale concetto di sostenibilità. “Si tratta di risparmiare materiali e componenti, ovvero mantenere i prodotti il più a lungo possibile nel circuito, attraverso l’estensione della loro vita, la ridistribuzione, il riutilizzo, la rigenerazione e, soltanto alla fine, il riciclo – spiega il coordinatore dello studio Davide Chiaroni, Energy & Strategy Group, Politecnico di Milano School of Management -. Connettendo più filiere che condividono parte delle risorse, favorendo la cosiddetta simbiosi industriale, risulta possibile sostenere la stessa domanda di beni e servizi con un minor prelievo di risorse naturali”.
L’Italia è pronta a cambiare così radicalmente i propri modelli produttivi? Con quale potenziale in termini di investimenti, competitività e occupazione?
L’indagine condotta dall’E&S Group su 150 aziende in 4 macro-settori industriali prova a delineare la sensibilità del nostro Paese in termini di economia circolare. Per ciascuna impresa, in ciascun settore, gli esperti hanno analizzato le pratiche adottate, i driver che ne favoriscono la diffusione e gli ostacoli ancora da superare. Ne emerge una fotografia ricca di chiaroscuri.
Anzitutto, lo studio riguarda i seguenti contesti produttivi:
Veniamo al cuore dell’indagine partendo dalle buone notizie. Il 62% delle aziende intervistate ha implementato almeno una pratica di economia circolare o ha giocato un ruolo di supporto ad altre imprese (10%). Quanto al restante 38%, il 14% dichiara di voler adottare almeno una pratica di economia circolare nel prossimo triennio e solo il 24% si è mostrato indifferente. Guardando indietro, si comprende anche che la transizione verso modelli circolari è un processo già in atto da diverso tempo. Circa il 30% delle aziende attive ha agito solo negli ultimi due anni, mentre il 40% nell’intervallo compreso tra 2 e 5 anni fa.
Le cifre, da sole, inducono ottimismo, ma la situazione varia nettamente da settore a settore. In generale, il Resource & Energy Recovery sta facendo meglio di altri, mentre le aziende dell’Automotive sembrano ancora troppo legate a logiche di economia lineare.
Ma cosa fanno le aziende in concreto? Le pratiche manageriali per la transizione circolare delle imprese sono associate alle due dimensioni del Butterfly Diagram (cicli biologici e cicli tecnici) descritte nel precedente approfondimento.
L’attività più adottata è il Design for Environment, ovvero la riprogettazione di prodotti e processi, il tassello principale del cambiamento. Solo un terzo delle aziende intervistate ha investito in Design for Remanufacturing/Reuse (rigenerazione e riutilizzo di componenti) e ben poche si sono spinte al Design for Disassembly, che richiede di implementare, già in fase di progettazione del prodotto, il suo futuro smontaggio green e ad alto grado di recuperabilità. Ancor meno diffusi, come al termine di un “imbuto”, i sistemi di Take Back per il recupero delle materie e dei componenti dai clienti finali. Insomma, il processo di trasformazione si è messo in moto, ma la strada è ancora lunga.
Cosa spinge i decision maker del mondo industriale ad adottare processi green? La visione imprenditoriale da sola non basta. Secondo i 150 protagonisti dell’indagine, i principali driver sono:
Tra le spinte meno significative, invece, l’adozione di una Reverse Supply Chain, la prossimità geografica di partner specifici, la scarsità delle risorse e la volatilità dei prezzi.
Quanto invece agli ostacoli alla diffusione dell’economia circolare, la parola chiave è incertezza. Ed è legata soprattutto alla situazione governativa italiana, che non agevola la valutazione di decisioni strategiche. Al secondo posto ci sono i costi d’investimento e le tempistiche degli interventi da sostenere. Non meno importante, la scarsa propensione al rischio del top management. Seguono poi tutti i limiti connessi alle caratteristiche dei prodotti e dei flussi del modello circolare.
Il campione analizzato non è tale da permetterci conclusioni certe, ma questa indagine ci aiuta a sfatare il mito che vede nell’economia circolare un qualcosa di “sdoganato” e pienamente attivo nel mondo imprenditoriale italiano. La vera transizione circolare, richiede tempo, supporto politico e investimenti ben diversi.