
Quali sono i costi della decarbonizzazione? È bene chiederselo perché, al 2030, l’Italia dovrà dar conto degli obiettivi fissati a livello europeo e italiano. Il nostro Paese ha stabilito, col PNIEC, i target nazionali, che a oggi sono lontani: come ha messo in evidenza lo Zero Carbon Policy Agenda 2025 dell’Energy & Strategy Group, si sono spesi 101 miliardi di euro per registrare un calo delle emissioni pari a 11 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti.
Significa aver speso 11mila euro per tonnellata di CO₂ evitata. Andando avanti così “dovremmo investire oltre 1400 miliardi di euro entro il 2030 per raggiungere i target”, fa rilevare Andrea Ronchi, fondatore di CO2 Advisor, società specializzata in ETS e commodity ambientali a livello italiano ed europeo. Pur considerando fondamentale e improcrastinabile la necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica, in progressiva crescita, la domanda che occorre porsi è: possiamo permetterci una spesa simile, a fronte di una riduzione comunque fuori traiettoria?

Servono risposte urgenti, per far fronte ai costi della decarbonizzazione, tanto più che da quest’anno ha preso avvio l’ETS2, il sistema di scambio di quote di emissione funzionante in parallelo al sistema ETS (Emission Trading System) che si applica alle emissioni dei combustibili e dei carburanti immessi in consumo nel settore trasporti, edilizia, PMI energetiche, manifatturiere e del settore costruzioni che impiegano calore di processo. Su di essa ci torneremo più avanti. Intanto, però, va segnalato che c’è chi ha previsto costi sensibili causati dall’applicazione di questo sistema.
Secondo BloombergNEF il nuovo ETS2 europeo “farà schizzare il prezzo del carbonio a 149 euro per tonnellata di CO2 nel 2030, il valore più alto al mondo”. Con molti benefici per la riduzione delle emissioni, in linea con quelli previsti dalla Commissione UE. Ma con rischi concreti di salassi per i cittadini, se i costi aggiuntivi del mercato del carbonio “gemello” dell’ETS1 saranno passati integralmente ai consumatori. Sebbene gli aumenti dei costi ricadano sui fornitori di carburante, questi si riverseranno in ultima analisi sugli utenti finali, con i consumatori che probabilmente sosterranno il peso maggiore del prezzo del carbonio.
BloombergNEF prevede che le bollette del trasporto su strada potrebbero aumentare del 22-27%, mentre le spese per il riscaldamento domestico potrebbero aumentare fino al 31-41% se i costi fossero completamente trasferiti.
Resta da capire, quindi, come possiamo – e per quanto potremo ancora – permetterci costi della decarbonizzazione così elevati a livello internazionale.
Ripartiamo dal contesto nazionale. “L’Italia come il resto dell’Europa è impegnata in un piano di decarbonizzazione che è stato aggiornato con un target intermedio al 2030 previsto a -55% – ricorda Ronchi -. Se fino a oggi siamo arrivati a -28,7%, nei prossimi quattro anni dovremmo colmare il gap, preparandoci a fare quello che non è stato fatto negli scorsi 20 anni”.
“Negli ultimi 5-10 anni abbiamo speso in media tra i 120 e i 127 miliardi all’anno in investimenti per la decarbonizzazione. Sempre in questi 5-10 anni noi non abbiamo mai ridotto le emissioni di più di 10-11 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Supponendo che questa azione sia totalmente frutto di interventi di efficientamento, revamping industriale, passaggio a fonti energetiche “pulite” per la produzione di energia o di calore – anche se è facile supporre che sul totale siano da considerare la cessazione di attività produttive o di delocalizzazione – significa che ogni anno si spendono 100-120 miliardi l’anno per questo fine. Da qui si arriva al costo di 11mila euro per tonnellata di anidride carbonica e il conseguente ragionamento sulla spesa monstre di 1400 miliardi, ossia l’equivalente di 25 anni della totalità della spesa pubblica per investimenti”, specifica l’imprenditore e fondatore di CO2 Advisor.
Il costo della decarbonizzazione è spropositato, specie se si considerano i prezzi delle quote del sistema EU ETS. Seppure aumentati negli ultimi anni, hanno raggiunto un prezzo medio annuo di oltre 80 euro per tonnellata di CO2 nel 2022 e 2023.
Il confronto tra costi è abnorme. “Com’è possibile che quando ci muoviamo per seguire la policy dettata dall’alto, spendiamo 11mila euro a tonnellata e quando lasciamo le aziende libere di organizzarsi, ne spendiamo notevolmente meno?”, fa notare il founder di CO2 Advisor.
Giusto per ricordarlo, l’Emission Trading Scheme è nato come un meccanismo di mercato in Europa basato sul sistema cap & trade e ha permesso, dall’anno della sua nascita (2005) di ridurre del 41% le emissioni nei settori interessati (Fonte: Consiglio Europeo).
Non solo ha costi notevolmente più bassi, ma “nel perimetro ETS la riduzione –55% rispetto al 2005 è in traiettoria rispetto ai target 2030, a differenza degli altri comparti. Dove c’è prezzo e competizione, il costo per ridurre la CO₂ scende e a costi accessibili”. Il problema, rilevato dallo stesso Ronchi, è che negli ultimi anni l’ETS si è spostato da sistema “cap & trade” a tributo a prezzo variabile, moltiplicando aste e gettito da redistribuire nei pilastri spesso inefficienti. Il risultato è un segnale di prezzo sporco, costi marginali in salita e tenuta sociale a rischio.
“Occorre riportare l’ETS1 a un vero sistema di mercato e per farlo è necessario tornare a un meccanismo dove i permessi di emissione vengano di nuovo assegnati in misura decrescente ai soggetti coinvolti senza che questi debbano andarli a prendere ad asta. Quest’ultima comporta un gettito che poi lo Stato che lo raccoglie deve impiegare all’interno dei fondi definiti dall’Unione Europea per finanziare la decarbonizzazione”.
Secondo il founder di CO2 Advisor, l’ETS oggi appare più come una “carbon tax occulta” che uno scherma di emission trading, perché si prelevano risorse dai soggetti di un certo comparto industriale che poi vengono allocate per gli incentivi sulla mobilità sostenibile, sulle rinnovabili, sull’efficienza energetica e sugli altri pillar. Nel momento in cui si preleva e si ridistribuisce vengono a mancare due elementi fondamentali per raggiungere i target 2030:
Nel primo caso ci si riferisce al tempo che trascorre dal momento in cui vengono raccolti fondi proveniente dal meccanismo dal sistema al momento in cui si decide di spenderli.
La seconda questione è ancora più determinante: “se si raccoglie una provvista economica dall’allocazione dei permessi di emissione, come poi si vanno a ridistribuire non è in funzione della tecnologia che ha il minor costo marginale d’abbattimento. Tutt’altro: si vanno a stanziare soldi sui fronti su cui decarbonizzare costa tantissimo. Ha senso se lo si fa ponendo attenzione a progetti di lungo periodo, per stimolarne la crescita, ma poi si dovrebbe evitare l’errore di continuare a finanziare un comparto senza creare i presupposti per assicurare un’indipendenza a quel mercato in futuro”. Ronchi pone l’esempio dei primi Conti Energia per diffondere il fotovoltaico: ha creato le basi per una diffusione dell’energia solare, ma non ha gettato le basi per uno sviluppo dell’industria nazionale ed europea. “Con l’auto elettrica, in Europa stiamo perseguendo lo stesso errore”.
Cosa occorre fare ora per cercare di tornare in traiettoria rispetto agli obiettivi 2030 e ridurre i costi della decarbonizzazione? “Innanzitutto, l’ETS ha bisogno di essere riportato velocemente a un sistema di mercato. Inoltre, occorre “comprare tempo”, ossia dobbiamo cercare di perseguire in qualche modo gli obiettivi al 2030 in questi pochi anni residui, impiegando tutte le risorse economiche nel miglior modo possibile”.

Per l’imprenditore occorre puntare a ciò che era già stato definito dall’Emission Trading Scheme iniziale: “sarebbe opportuno aprire il mercato non solo ai permessi di emissione, ma per una buona parte anche ai crediti di CO2. Perché i carbon credit sono un sistema in grado di permettere a tutti, non solo ai soggetti designati dalla normativa perché grandi emettitori, di sviluppare tecnologie di riduzione o cattura delle emissioni. Se queste tecnologie sono economicamente più sostenibili di quelle che dovrebbero essere impiegate dai soggetti coinvolti in ETS, potrebbero ricevere fondi in cambio del beneficio ambientale da impiegare per il perseguimento degli obiettivi”.
il meccanismo di Carbon Credit è quello che – per definizione – consente al sistema di essere più neutrale da un punto di vista tecnologico, “ma bisognerebbe anche adottare dei criteri di neutralità geografica”. Questo significa, sempre secondo Ronchi, applicare i principi del protocollo di Kyoto: in qualunque luogo del mondo avvenga l’emissione di una tonnellata di anidride carbonica, a livello atmosferico sortisce gli stessi effetti.
“Quindi, se dobbiamo premiare le tecnologie più cost-efficient, per ottimizzare l’uso di ogni singolo euro per decarbonizzare, allora occorre essere anche neutri anche sul luogo in cui tali tecnologie possono essere impiegate. In contesti molto evoluti dal punto di vista dell’efficienza energetica, del mix energetico verso le rinnovabili come l’Unione Europea attivare un progetto che riduca o catturi una tonnellata di CO2 costa di più che in tante altre zone del mondo dove la baseline di partenza è peggiore. Quindi, bisognerebbe pensare non solo di aprire il mercato ai crediti di CO2, ma di farlo anche a quelli sviluppati extra Europa. Non è un’idea così strana: fino al 2013 lo schema EU ETS lo prevedeva”.
Va ricordato che la COP 29 tenutasi a Baku ha visto la risoluzione delle regole a lungo in sospeso ai sensi dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi per stabilire un quadro per la cooperazione internazionale, compresi i mercati del carbonio. In particolare, Ai sensi dell’articolo 6.2 dell’Accordo di Parigi, i Paesi possono scambiare bilateralmente le riduzioni delle emissioni di CO2.
“Questo è un modo per ridurre i costi della decarbonizzazione rispetto ai circa 11mila euro a tonnellata di anidride carbonica, per renderli quanto più compatibili con l’esigenza di finanziamento della decarbonizzazione per gli obiettivi 2030. Naturalmente, giunti a questo punto, servirà anche un compromesso. Dato che si è arrivati così in ritardo, non è possibile pensare di realizzare solo all’interno dell’Unione Europea con risorse e mezzi dell’Unione Europea questo target di decarbonizzazione”.
In tutto questo scenario di necessità di raggiungere gli obiettivi fissati e ridurre quanto più possibile i costi della decarbonizzazione, c’è da fare i conti con la già citata ETS2. Esso introduce il Sistema per lo scambio di quote di emissioni per i settori degli edifici e del trasporto stradale e ulteriori settori industriali non compresi nell’ambito di applicazione dell’attuale EU ETS.
Tale schema è già stato oggetto di previsioni allarmanti, come quella che abbiamo citato di BNEF.
“Con ETS2 l’Europa ha esaltato il meccanismo distorsivo dei sistemi di mercato. Con tale sistema, ancor peggio che l’ETS1, siamo di fronte a tutti gli effetti a una carbon tax”, sottolinea Ronchi.
Nell’ETS2 tutti i permessi di emissione vengono assegnati solo a titolo oneroso; quindi, tramite asta che produce gettito per lo Stato che lo colloca. Tale gettito deve essere versato in cinque fondi amministrati, quattro direttamente dall’Unione Europea e uno dagli Stati membri (ma su coordinamento della stessa UE) e va a colpire tutti i consumi di combustibili fossili, liquidi, gassi e solidi.
“In altre parole, va a colpire i carburanti e la pompa di benzina, il metano per il riscaldamento, in alcuni paesi dell’Europa il carbone per il riscaldamento residenziale. Questo, specie in alcuni Paesi UE dove il carbone trova ancora ampio impiego, ETS2 rappresenterà una vera e propria carbon tax che pagheranno in primis i cittadini”.
Il rischio, stimato da molte società di analisi come CO2 Advisor è che il prezzo di questi permessi di emissione dell’ETS 2 sarà da subito superiore al prezzo dei permessi di emissione delle ETS1. Questo, come si traduce in termini di costi di decarbonizzazione? “Per i non addetti ai lavori vuol dire un più 35-40% dei prezzi del metano e tra i 50 e 80 centesimi in più alla pompa di benzina”.
Se si pensa che nel 2018 in Francia si innescò la protesta dei gilet gialli per rincari di 7,6 centesimi sul diesel e 3,9 centesimi sulla benzina, un rialzo come quello paventato dagli effetti dell’ETS 2 assume margini di rischio di instabilità sociale decisamente forti.
“Uno schema così configurato dal nostro punto di vista ha come conseguenza molto plausibile una rivolta talmente impattante da parte dei cittadini della collettività europea da mettere a repentaglio non solo la tenuta dell’impianto del Green Deal, ma l’Unione Europea stessa”, conclude Ronchi.
