Ricarica dei veicoli elettrici: i 4 modi secondo la norma IEC 61851-1

La norma IEC 61851-1, la norma generale che regola la ricarica conduttiva dei veicoli elettrici, classifica le modalità di connessione dei veicoli elettrici alla rete di alimentazione in 4 diversi modi di ricarica. Ciascuna ha caratteristiche peculiari che rendono la ricarica dei veicoli più rapida, più semplice o più comoda.

Ricarica Modo 1

Ricarica veicolo elettrico Modo 1
Ricarica veicolo elettrico: Modo 1 – @ABB Italia

La ricarica Modo 1 consiste semplicemente nel collegamento diretto del veicolo elettrico alle normali prese di corrente 230/400 V fino a 16 A, domestiche o industriali, come un normale elettrodomestico. Non è quindi previsto alcun apparecchio particolare (è richiesto che la presa sia protetta da interruttore differenziale da 30 mA di tipo A). Di fatto non viene usato per le auto elettriche ma è ampiamente diffuso per scooter, motociclette e quadricicli di potenza contenuta. Di solito per questi veicoli la corrente massima non supera i 10 A e si usa una comune spina Schuko 230 V.

Ricarica Modo 2

Ricarica veicolo elettrico Modo 2
Ricarica veicolo elettrico: Modo 2 – @ABB Italia

La ricarica Modo 2 richiede il collegamento del veicolo a prese di corrente 230/400 V fino a 32 A, domestiche (Schuko) o industriali, tramite un cavo di alimentazione che integra un apparecchio denominato In-Cable Control and Protection Device che controlla il processo di ricarica.

Si tratta in sostanza di una stazione di ricarica in corrente alternata portatile a spina che si usa quando non è disponibile una stazione di ricarica fissa. La potenza massima su alcuni veicoli arriva sino a 22 kW quando si usa un apparecchio dotato di spina industriale, a circa 3 kW quando si usa un apparecchio con spina domestica (Schuko). Il veicolo non distingue se la tipologia di ricarica è la 2 o la 3.

Ricarica Modo 3

Ricarica veicolo elettrico Modo 3
Ricarica veicolo elettrico Modo 3 con cavo staccabile – @ABB Italia

La ricarica Modo 3 presuppone il collegamento del veicolo a prese di corrente o connettori in corrente alternata 230/400 V specifici per la ricarica dei veicoli elettrici, dotati di opportuni contatti di controllo, installati in modo fisso. Si tratta in sostanza delle stazioni di ricarica fisse in corrente alternata, colonnine o Wall Box, che incorporano le funzioni pilota di controllo e protezione. La potenza massima dipende dal veicolo e raggiunge su alcuni modelli 22 kW (anche oltre su un numero limitato di veicoli).

Le prese e i connettori adottati per il modo 3 in Europa e in altri paesi, sono quelli di Tipo 2, secondo la norma EN 62196-2 (esistono anche altri tipi di connettori definiti nella norma EN 62196-2).

Ricarica Modo 4

Ricarica veicolo elettrico Modo 4
Ricarica veicolo elettrico: Modo 4 – @ABB Italia

La ricarica Modo 4 consiste nel collegamento del veicolo a connettori in corrente continua specifici per la ricarica dei veicoli elettrici. Si tratta delle stazioni di ricarica in corrente continua che incorporano, oltre alle funzioni pilota di controllo e di protezione, il caricabatteria che raddrizza e regola la corrente di ricarica direttamente erogata alle batterie del veicolo (caricabatteria che nel modo 3 è a bordo del veicolo). Il 4 è destinato soprattutto alla ricarica veloce oltre 22 kW e la potenza massima attualmente raggiunge, su alcuni veicoli, i 350 kW. Lo standard adottato in Europa è il CCS Combo 2 (secondo la norma EN 62196-3) ma è ancora molto diffuso anche lo standard CHAdeMO di origine giapponese.

Nel modo 4, inoltre, rientrano i sistemi di connessione automatica (pantografi) in corrente continua usati per la ricarica veloce dei bus sino a 600 kW.

Ricarica a bassissima tensione

Ricarica veicolo elettrico a bassissima tensione
Ricarica veicolo elettrico a bassissima tensione – @ABB Italia

Esiste infine una quinta modalità, specifica per la ricarica di e-bike e simili, che consiste nel collegamento del veicolo a connettori in corrente continua a bassissima tensione di sicurezza (fino a 120 V).

Benché questa modalità di ricarica sia particolarmente diffusa su alcune tipologie di veicoli leggeri, quali le biciclette elettriche, alcuni scooter e quadricicli a potenza di ricarica contenuta, essa non rientra nella classificazione modo 1, 2, 3 e 4 dato che la ricarica a bassissima tensione è esplicitamente esclusa dallo scopo della IEC 61851-1. Normalmente, mancando un connettore standard in corrente continua per questa categoria di veicoli, si usa una comune presa 230 V dalla quale si alimenta a spina il caricabatteria portatile in dotazione al veicolo.

L’infrastruttura fissa, quindi, è una semplice presa in corrente alternata esattamente come nel modo 1 o modo 2 (ma non si tratta di modo 1 o 2 in quanto il caricabatteria è esterno al veicolo). Si può assimilare all’alimentazione di un computer portatile con caricabatteria esterno.

Più offerta di prodotti e servizi VP Solar contro lo shortage

VP Solar ha rafforzato i rapporti con i principali produttori globali, così da mettere a disposizione dei professionisti nuove soluzioni e innovativi servizi pensati per fronteggiare l’attuale situazione di shortage nel mercato.

Per i sistemi commerciali e industriali

VP Solar ha definito accordi prioritari di approvvigionamento e fornitura di moduli e inverter, con linee finanziarie dedicate per poter garantire molti MegaWatt di componenti sempre disponibili in pronta consegna.

Il servizio è pensato per rispondere alle necessità delle Utility, degli installatori e degli EPC operanti in Italia e Sud Europa, così da porsi al riparo dallo shortage e dal conseguente aumento dei prezzi di materie prime e componenti.

Per il Superbonus e l’Ecobonus

Casa Ecobonus

Superbonus ed Ecobonus hanno impresso una significativa accelerazione al mercato negli ultimi anni. In particolare, in Italia stiamo assistendo a una crescente richiesta di sistemi energetici per il fotovoltaico, lo storage, le pompe di calore ed ibride e i sistemi di ricarica per veicoli elettrici.

Già dal 2020 VP Solar ha rafforzato gli accordi con i principali produttori, potendo così garantire sistemi energetici proposti in kit in pronta consegna.

Le soluzioni in kit sono molto apprezzate perché semplificano ogni fase, dalla preventivazione al dimensionamento, fino al reperimento dei materiali e all’installazione. Inoltre, gli impianti risultano perfettamente integrati, competitivi sul fronte economico e performanti, superando le attuali limitazioni di disponibilità causate dalla situazione globale di shortage.

Gestione batterie ADR

Per la gestione delle batterie al litio, VP Solar ha consolidato negli oltre 10 anni di attività in questo segmento un’organizzazione dedicata con specifiche infrastrutture e procedure per il rigoroso rispetto delle normative di sicurezza, sia nel trasporto che nello stoccaggio.

Gli operatori devono rispettare la normativa ADR per la gestione delle batterie al litio: un passaggio che impone molte prescrizioni legare al tema della sicurezza.

Gestione logistica integrata

Camion trasporto container

VP Solar ha sviluppato ulteriormente i propri servizi logistici e informativi basati su SAP, adattandoli alle attuali condizioni di mercato, che presenta una limitata disponibilità di materiali e una inadeguata gestione delle informazioni da parte dei produttori.

Per limitare l’impatto verso i propri clienti, VP Solar ha sviluppato con i propri consulenti una piattaforma per l’ottimizzazione delle pianificazioni e delle allocazioni delle disponibilità, basata sulle serie storiche dei dati e aggiornata in tempo reale sulla base delle informazioni relative all’arrivo di navi, container e camion.

Un migliore flusso informativo

Sono stati infine potenziati i sistemi di informazione verso i clienti, che possono così essere allineati sull’arrivo dei prodotti, approntamento e spedizione degli ordini pianificati, per poter programmare nella maniera più efficiente la gestione dei cantieri di installazione.

VP Solar ha inoltre operato per incrementare la dematerializzazione e digitalizzazione documentale prevedendo un flusso di dati elettronico con conservazione digitale dei documenti in parallelo o in alternativa alla modalità cartacea.

L’Italia sposa la linea Ue: nel 2035 stop produzione auto benzina e diesel

Non si può parlare di un pronunciamento inaspettato perché, come vedremo, segue un analogo annuncio effettuato poche settimane fa dalla Commissione Ue. Ciò non toglie che ascoltare tre ministri della Repubblica comunicare congiuntamente lo stop alla produzione di auto benzina e diesel entro il 2035 fa un certo effetto.

La riunione del CITE

È accaduto in occasione della quarta riunione del Cite (il Comitato interministeriale per la Transizione Ecologica), che ha appunto visto la partecipazione del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, del responsabile delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, oltre che del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti.

Una riunione, come si legge in una nota, che è servita a definire “le tempistiche di sostituzione dei veicoli con motore a combustione interna, decidendo, in linea con la maggior parte dei paesi avanzati, che il phase out delle automobili nuove con motore a combustione interna dovrà avvenire entro il 2035, mentre per i furgoni e i veicoli da trasporto commerciale leggeri entro il 2040″.

Nello stesso comunicato viene evidenziato come “in tale percorso occorre mettere in campo tutte le soluzioni funzionali alla decarbonizzazione dei trasporti in una logica di ‘neutralità tecnologica’ valorizzando non solo i veicoli elettrici ma anche le potenzialità dell’idrogeno, nonché riconoscendo – per la transizione – il ruolo imprescindibile dei biocarburanti, in cui l’Italia sta costruendo una filiera domestica all’avanguardia”.

Stop produzione auto benzina e diesel

Come detto, il pronunciamento del governo italiano costituisce la logica conseguenza di quanto precedentemente stabilito dai vertici della Commissione Ue. Infatti, nell’ambito del pacchetto “Fit to 55“, che contiene dodici proposte legislative più una nuova strategia forestale per accelerare la decarbonizzazione, è stato ufficializzato l’obiettivo di porre fine alla vendita di veicoli nuovi a benzina e diesel nel 2035.

In realtà i target principali da raggiungere nel comparto auto sono due. Infatti, Fit to 55 indica prima una riduzione del 55% di emissioni delle auto nuove vendute a partire dal 2030 rispetto ai livelli del 2021. Emissioni che, appunto, dovranno poi essere ridotte del 100% nel 2035. Cancellazione delle emissioni significa che a partire da quell’anno tutte le auto nuove immatricolate dovranno essere a impatto zero, che di fatto equivale a vietare la vendita in Europa, e quindi la produzione di auto benzina o diesel. Dunque, esattamente quanto poi comunicato dai ministri del nostro Paese.

Ma la circostanza che l’annuncio italiano rappresenti una logica conseguenza delle decisioni europee non ha impedito l’accendersi di polemiche soprattutto in seno all’industria automobilistica, preoccupata che non si finisca per fare il classico passo più lungo della gamba.

La protesta dell’ANFIA

Significativa la presa di posizione dell’ANFIA, l’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica, che ha sottolineato come quanto comunicato dal CITE “ha sorpreso e messo in serio allarme le aziende della filiera produttiva dell’automotive italiano e, probabilmente, anche tutti gli imprenditori e i lavoratori che rischiano il posto a causa di un’accelerazione troppo spinta verso l’elettrificazione”.

Uno studio dell’Associazione europea della componentistica Clepa quantifica i danni occupazionali ed economici che possono derivare dalla possibile messa al bando dei motori a combustione interna (diesel e benzina) al 2035 nei diversi Paesi manifatturieri a vocazione automotive. Nello studio si legge che al 2040, l’Italia rischia di perdere circa 73.000 posti di lavoro, di cui 67.000 già nel periodo 2025-2030. Purtroppo un numero così elevato non potrà essere compensato dalle nuove professionalità legate all’elettrificazione dei veicoli.

Il comunicato dell’ANFIA si chiude quindi con l’auspicio di un ripensamento, o comunque un chiarimento, su quanto espresso nella nota del CITE. Inoltre, l’associazione chiede al governo italiano di seguire la strada dei governi degli altri Paesi: dare delle certezze alla filiera e definire al più presto la road map italiana per la transizione produttiva di auto elettrica e della mobilità sostenibile.

ABB, un programma per il retrofit e il riciclo degli interruttori

Aggiornare gli interruttori di un impianto quando diventano obsoleti (per tecnologia o normativa) o in generale quando è richiesta la loro sostituzione a causa di guasti o malfunzionamenti, che fine fanno gli interruttori usati?

ABB si è posta questa domanda e, fedele ai propri principi di sostenibilità, ha sviluppato un nuovo modello di business basato sull’economia circolare per la sostituzione degli interruttori obsoleti con kit di retrofit e il recupero e riciclo dei dispositivi sostituiti.

Quando l’interruttore deve essere sostituito può essere utilizzato un kit di retrofit. In questo modo può essere rinnovato il quadro elettrico riducendo i tempi di fermo dell’impianto.

ABB ha sviluppato oltre 3.000 versioni di kit per il retrofit di interruttori di bassa tensione. Non solo per intervenire sui propri prodotti, ma anche su quelli di altri produttori. Inoltre, per quelle applicazioni particolarmente datate, con i nuovi kit si può beneficiare di nuove funzionalità digitali.

Ottima dunque la possibilità di aggiornare i quadri elettrici, ma cosa succede con i materiali rimossi? A tal fine ABB ha lanciato un nuovo servizio per ritirare e riciclare gli interruttori per minimizzare l’impatto sull’ambiente.

Riciclare gli interruttori obsoleti o guasti

Grazie alla collaborazione con Interseroh TSR Italia, ABB Smart Power Service provvede al recupero e al riciclo dei materiali. L’iniziativa è inclusa nella più ampia gestione dei RAEE di ABB, che rientra nel consorzio ERION Professional per la gestione dei RAEE professionali.

Questo programma assicura che gli interruttori sostituiti da kit di retrofit siano ritirati da trasportatori autorizzati, direttamente presso il sito del cliente, e poi consegnati a siti di riciclo qualificati dove l’interruttore viene smontato.

Qui i componenti di materiale omogeneo vengono raggruppati e recuperati o rielaborati per essere reimmessi sul mercato.

Il materiale non riciclabile viene avviato verso impianti di termovalorizzazione dove viene trasformato in energia. L’eventuale rimanenza viene smaltita sulla base delle normative vigenti.

Ai clienti viene fornito un certificato che attesta l’avvenuto riciclo, che include la percentuale effettiva di riciclo, l’eventuale trasformazione e lo smaltimento dei RAEE e anche il corrispondente valore di CO2 risparmiato.

L’esempio di A2A Gencogas

A2A Gencogas S.p.A. è una delle principali utility di produzione energetica in Italia ed è la prima realtà ad avere aderito al programma di riciclo interruttori di ABB.

In particolare, nella centrale termoelettrica a Cassano d’Adda (MI), è stato attivato un programma di sostituzione graduale degli interruttori di bassa tensione, alcuni dei quali avevano raggiunto il fine vita dopo più di 30 anni di servizio. La sostituzione, in un unico pick-up, ha coinvolto 113 interruttori aperti di varie taglie e versioni.

ABB Smart Power Service, in collaborazione con il cliente, ha analizzato gli interruttori installati, appurato che le parti fisse erano degli interruttori installati erano ancora in buone condizioni, e ha raccomandato di sostituire le sole parti mobili degli interruttori utilizzando soluzioni del tipo “direct replacement”.

Questo comporta l’installazione di una parte mobile degli interruttori di ultima generazione appositamente modificata per essere installata nella parte fissa dei vecchi interruttori; questo approccio garantisce anche un tempo di installazione estremamente limitato e una rapida riattivazione dell’impianto.

Il processo di recupero degli interruttori ha portato all’80,2% di riciclo delle materie prime, a un recupero energetico del 19,5% e a uno smaltimento finale di solo lo 0,3%.

In altre parole, è stato possibile recuperare oltre 1 tonnellata di rame e quasi 2 tonnellate di acciaio.

Fotovoltaico galleggiante: il nuovo impianto di Singapore

Produrre energia green e ridurre le emissioni inquinanti sfruttando l’ampia superficie acquatica dell’isola: Singapore guarda avanti e investe nel fotovoltaico galleggiante. Un’imponente installazione composta da 122mila moduli fotovoltaici “spalmati” su 45 ettari, per una potenza di picco pari a 60MW.

Così, la città-stato asiatica risolve i problemi di spazio e punta dritta all’obiettivo dei 2 GW di capacità solare entro il 2030. Il tutto, alimentando i propri edifici e il sistema idrico del Paese con energia rinnovabile.

Il ruolo degli inverter FIMER

Tra i protagonisti tecnologici del progetto affidato all’EPC BBR Greentech, gli inverter FIMER “Legacy” MS Station da 750kW. Soluzioni centralizzate dedicate proprio alle applicazioni su larga scala, in grado di resistere anche alle condizioni meteorologiche più estreme come l’esposizione costante all’acqua.

Inverter solari FIMER nell'installazione offshore di Singapore

“Il fotovoltaico galleggiante sta diventando sempre più popolare, soprattutto nei mercati asiatici che vantano le condizioni perfette per l’implementazione – spiega Maren Schmidt, Managing Director Utility Line of Business dell’azienda -. FIMER ha messo a disposizione di questo ambizioso progetto una soluzione ideale, compatta e facile da installare, che si adattava perfettamente alle esigenze del cliente. La messa in servizio durante la pandemia ha certamente comportato anche una serie di sfide, brillantemente superate dal team di esperti coinvolti”.

Perché investire nel fotovoltaico flottante

Nel 2021 il solare galleggiante è cresciuto del 101% sull’anno precedente, mentre si prevede un aumento del 32% della domanda nel periodo 2020-2026. I dati del report “Floating Solar Landscape 2021” di Wood Mackenzie fotografano dunque un mercato molto promettente soprattutto nei Paesi asiatici, pronti a guidare il boom di nuove installazioni.

La rapida diffusione del fotovoltaico flottante è dovuta soprattutto ai suoi vantaggi tecnici. La vicinanza dei pannelli solari alle superfici acquatiche e la maggiore luce riflessa consentono infatti di aumentare considerevolmente la produzione di energia rispetto a un impianto analogo installato a terra. Ovviando, al contempo, alla necessità di occupare ulteriore suolo.

5 Consigli su come acquistare materiale elettrico

Il lavoro dell’elettricista è uno dei più importanti, tra quelli dei professionisti dell’edilizia. Il motivo è da ricercare nel fatto che si tratta di uno degli impianti cruciali per la vivibilità della casa e se realizzato senza rispettare la normativa comporta pericoli per la salute.

Per un elettricista, ma anche per le riparazioni fai da te, avere a disposizione il giusto materiale elettrico si rivela indispensabile e comprende articoli, tra cui interruttori, prese, placche, pulsanti, tubi, scatole di derivazione, prodotti di tipo elettronico come quelli per l’allarme e molti altri. In questo articolo ti proponiamo 5 semplici consigli per effettuare l’acquisto degli articoli elettrici in maniera più consapevole.

1 – Quale materiale elettrico?

La scelta del materiale elettrico va fatta in relazione a diversi fattori e sempre nel rispetto delle regole che risultano interconnesse. Gli altri elementi da considerare sono:

La valutazione va fatta in base all’intreccio di questi fattori e al confronto che si ha con gli altri professionisti eventualmente coinvolti, ingegnere, architetto, interior designer, solo per citarne alcuni.

2 – Non sottovalutare l’opzione di un fornitore online

Se una volta era indispensabile recarsi di persona presso un fornitore con un ricco assortimento, oggi non è più necessario: online si trovano fornitori che presentano un’ampia scelta di materiali e sono capaci di fare la differenza in termini di velocità di reperibilità del materiale, con tempi di spedizione persino non superiori alle 20 ore. Professionalità, consulenza da remoto, rapidità del servizio e dell’ordine: tutti elementi che rendono gli e-commerce decisamente interessanti.

3 – Un piccolo magazzino sempre pronto

Avere un piccolo magazzino sempre pronto, che il tuo caso sia quello di una ditta di piccole o grandi dimensioni o anche di un uso amatoriale, costantemente fornito e aggiornato, dove quando finisce un articolo ti trovi prontamente a ordinarne un altro in modo da prevenire i diversi imprevisti che possono capitare, si rivela un’opzione oggi indispensabile. Anche da questo punto di vista un e-commerce online specializzato in materiale elettrico risulta comodo come nessun altro, sempre per i motivi legati all’assortimento.

4 – In caso di necessità

E se l’imprevisto capita? Bisogna essere bravi a risolverlo, semplicemente. Collaborare con un fornitore di fiducia sempre disponibile a intervenire e a trovare anche quella componente particolare di cui non si può fare a meno è imprescindibile. Chi lavora in edilizia lo sa, i tempi sono stretti e le consegne è cruciale vengano rispettate. Reperire velocemente il materiale elettrico in casi di emergenza fa davvero la differenza e un buon fornitore lo si vede proprio in questi momenti.

5 – La qualità al primo posto

La qualità è un fattore imprescindibile nella valutazione del materiale elettrico. Questo perché è da essa che dipende il risultato finale e la vivibilità della struttura abitativa nel breve come nel lungo periodo. Un elemento da non sottovalutare e da tenere sempre a mente, che passa per marche certificate, affidabili e rinomate: un buon rivenditore di materiale elettrico non può non averle.

Interconnessione di fabbrica ed efficienza: la scelta di Alfasigma

Integrare e monitorare otto linee produttive senza intervenire sulle macchine: la “mission impossible” dell’interconnessione di fabbrica voluta da Alfasigma è diventata realtà con Data Wizard. Il quadro di automazione stand-alone proposto da Schneider Electric ha di fatto avviato il percorso di digitalizzazione dello storico stabilimento di Pomezia (RM).

L’azienda farmaceutica a capitale italiano, frutto della fusione tra Alfa Wasserman e Sigma-Tau, si proietta così nel futuro dell’automazione industriale con una soluzione scalabile ed efficiente, ma anche economicamente conveniente. Il progetto romano rientra infatti negli interventi incentivabili con il piano Transizione 4.0.

Perché innovare l’Alfasigma di Pomezia

L’impianto di Pomezia produce ogni anno 53 milioni di confezioni di farmaci in tutte le forme: solidi orali, liquidi orali, iniettabili, liofilizzati e gelatine molli. Perché digitalizzarlo? Il progetto rientra in un piano di ampio respiro per aumentare gli standard qualitativi delle produzioni Alfasigma. Anche al fine di controllare l’efficienza operativa complessiva (OEE) e di implementare la capacità di compliance normativa.

“Volevamo disporre di dati provenienti dalla produzione da convogliare nei sistemi aziendali – spiega Riccardo Vaccina, responsabile Ingegneria, Manutenzione e Sicurezza del sito produttivo Alfasigma di Pomezia -. Questo soprattutto per monitorare l’andamento della produzione e l’output su un numero elevato di macchinari e linee, compresi quelli più datati. Ci servivano infatti informazioni per misurarne l’efficienza e capire su quali macchine concentrare i nostri sforzi in ottica di manutenzione straordinaria, di revamping o di eventuale sostituzione”.

Data Wizard: particolare dell'installazione all'Alfasigma di Pomezia

Interconnessione di fabbrica: i requisiti del progetto

Il progetto di digitalizzazione doveva soddisfare una condizione fondamentale: non modificare in alcun modo le macchine. Un requisito chiave per evitare di trovarsi a dover nuovamente garantire lo stato di qualifica del macchinario, come richiesto dalle normative di riferimento del settore farmaceutico. La soluzione a questa sfida progettuale decisamente complessa ha preso il nome di Data Wizard. Un quadro installato separatamente rispetto alla macchina, ma dotato di tutta la componentistica necessaria per captare segnali elettrici, convertirli e trasmetterli tramite protocollo OPC-UA ad altri sistemi aziendali.

È possibile associare a Data Wizard una sensoristica, che resta comunque indipendente dal macchinario

Cosa fa il Data Wizard di Schneider Electric

L’installazione di elementi Data Wizard su otto linee produttive, a opera del partner Schneider Electric TG Automation, permette oggi ad Alfasigma ottenere informazioni importanti per migliorare l’efficienza operativa della fabbrica. Per esempio, gli operatori possono comprendere in dettaglio le dinamiche di fermo macchina su linee come quelle di confezionamento, composte da molti elementi diversi, per identificare la fonte del problema. Inoltre, con l’installazione di un sensore a fine linea, si associano ai dati sul processo produttivo il conteggio dei pezzi effettivamente realizzati per ogni lotto. Una soluzione che aggiorna automaticamente e in tempo reale il calcolo dell’OEE.

C’è di più: Alfasigma ha scelto di installare Ultra, il top di gamma della soluzione Data Wizard. Questo consentirà all’azienda di integrare in futuro ulteriori funzionalità quali il controllo dei consumi energetici e la sensoristica per il monitoraggio termografico delle macchine, convogliando le informazioni in dashboard dedicate agli operatori. Un’interconnessione di fabbrica più ricca, che supplisce in toto la raccolta manuale e cartacea delle informazioni, migliorando ulteriormente l’efficienza del sito di Pomezia.

In Italia l’efficienza energetica è trainata dalle detrazioni fiscali

Piaccia o non piaccia, finora nel nostro Paese il meccanismo chiave per far progredire l’efficienza energetica nell’ambito dell’edilizia è stato quello della detrazione fiscale, un’agevolazione che consente ai privati di recuperare gran parte delle spese sostenute, se non addirittura tutte, o non sostenerle affatto come avviene nel caso del Superbonus.

Una situazione di cui è ovviamente ben consapevole ENEA, che non a caso ha diffuso contemporaneamente due importanti studi: il 10° “Rapporto annuale sull’efficienza energetica” e il 12° “Rapporto annuale sulle detrazioni fiscali per interventi di risparmio energetico e utilizzo di fonti di energia rinnovabili negli edifici esistenti”.

Una presentazione avvenuta nel corso di un convegno organizzato con Confindustria, alla presenza del ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, del delegato di Confindustria per la Transizione Energetica Aurelio Regina e del presidente ENEA Gilberto Dialuce.

Dall’Ecobonus 45 miliardi di investimenti

investimenti Superbonus 110

A livello complessivo il dato che spicca maggiormente è quello relativo al consuntivo degli ultimi 15 anni durante i quali, proprio grazie all’effetto dei meccanismi di detrazione fiscale, sono stati investiti in Italia oltre 53 miliardi di euro, dei quali circa 45 miliardi fino al 2020 grazie all’utilizzo dell’ecobonus con recupero delle spese al 65%.

Altri 8 miliardi di investimenti vanno invece collegati agli interventi che sono già stati realizzati in regime di Superbonus al 110%. Per quanto riguarda poi il raggiungimento degli obiettivi previsti dai piani nazionali ed europei, ENEA indica che sono stati centrati rispettivamente all’80% e al 90%, soprattutto per il traino del comparto residenziale.

Edilizia rilanciata grazie agli incentivi

Efficienza edificio

“La transizione energetica è una delle sfide più impegnative da affrontare e dobbiamo contribuire, anche con un mutamento dei comportamenti, ai grandi cambiamenti socio-economici che comporterà. – ha dichiarato il presidente di ENEA Gilberto Dialuce – Le incentivazioni hanno consentito di riqualificare una parte importante del parco abitativo, di ridurre i consumi e di rilanciare un settore in difficoltà come quello dell’edilizia”.

Il presidente dell’ENEA ha poi sottolineato che “i prossimi dieci anni saranno decisivi per rispettare il limite dell’innalzamento di un grado e mezzo di temperatura entro il 2030 e per centrare questo obiettivo servirà, ad esempio, almeno raddoppiare il tasso di riqualificazione energetica degli edifici, in linea con quanto evidenziato dalla Renovation Wave lanciata dalla Commissione europea”.

I dati sui risparmi conseguiti

Risparmio energetico annuale per settore

Un cammino complesso il cui andamento viene evidenziato anche dai dati relativi ai risparmi energetici. Sul fronte del risparmio obbligatorio 2014-2020, stabilito dalla Direttiva sull’Efficienza Energetica, il report ENEA indica che l’obiettivo di 297.300 GWh/anno è stato raggiunto per circa il 91%, arrivando a quota 270.300 GWh/anno. I maggiori contributi sono venuti dai certificati bianchi (97.600 GWh/anno) e dal sistema di detrazioni fiscali (120.900 GWh/anno).

Quanto al Piano d’Azione per l’Efficienza Energetica (PAEE) 2017, i risparmi conseguiti nel periodo 2011-2020 hanno consentito di raggiungere l’82% dell’obiettivo indicato, rispetto al 77% dell’anno precedente. Nel dettaglio, al 2020 sono stati risparmiati 148.000 GWh/anno, principalmente per il contributo del settore residenziale, con una riduzione di 73.620 GWh/anno.

Comparto residenziale che si è rivelato addirittura sovraperformante rispetto all’obiettivo di settore fissato dal PAEE, arrivando al 172,5% del risparmio prefissato. A seguire, in termini di percentuale di raggiungimento dell’obiettivo, troviamo il terziario con 9.537 GWh/anno (66,6%), l’industria con 38.260 GWh/anno (64,5%) e, da ultimo, il settore dei trasporti con 26.630 GWh/anno (41,6%).

Economia circolare in Italia: il viaggio continua

Il potenziale dell’economia circolare in Italia è grande, e la realtà tiene il passo: 1 azienda su 2 guarda concretamente a questo tipo di investimento, mentre cala la percentuale dei totalmente diffidenti. Lo dice il Circular Economy Report 2021 dell’Energy&Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano, che per il secondo anno indaga le attitudini degli operatori in diversi settori dell’economia italiana.

Stando alla survey, crescono gli imprenditori interessati a pratiche manageriali circolari, ma c’è ancora una certa confusione metodologica e strategica sugli ambiti di intervento.

Circular economy vs sviluppo sostenibile

Proprio in virtù di questa difficoltà nel tracciare i confini dell’economia circolare in Italia, apriamo il nostro primo approfondimento sul report ricordando con la sua definizione. Gli esperti dell’E&S Group parlano di “un’economia industriale volutamente pensata con caratteristiche di ristorazione e rigenerazione, in cui si minimizzano le risorse usate, il flusso di energia e il deterioramento ambientale, senza diminuire la crescita economica e sociale, e il progresso tecnico e l’innovazione”.

Economia circolare vs sviluppo sostenibile: le differenze

Fonte: Korhonen, Honkasalo e Seppala 2018 – Circular Economy Report 2021, E&S Group

Da qui il chiarimento sulle differenze tra circular economy, sviluppo sostenibile e criteri ESG (Environmental, Social, Governance). “Non bisogna confondere i tre tipi di approccio – spiega Davide Chiaroni, direttore dell’Osservatorio sulla Circular Economy dell’E&S Group -. L’economia circolare prevede la rigenerazione del capitale naturale, non la semplice limitazione del danno ambientale. Si minimizzano le risorse usate, ma senza diminuire la crescita economica e sociale, il progresso tecnico e l’innovazione”. Una prospettiva complessa, che obbliga al ripensamento dell’intero ecosistema di filiera. Ma anche una grande opportunità legata a comportamenti che limitano i rischi di mercato, operativi, di business e legali. Insomma, non tutto ciò che è sostenibile è circolare, ma tutto ciò che è circolare ha un impatto positivo sulla sostenibilità globalmente intesa.

La circular economy è andata ufficialmente a ingrossare le fila delle parole chiave legate al tema della sostenibilità, ma attenzione a non confondere gli approcci

Il PNRR va riformato

Come si colloca l’economia circolare in Italia dal punto di vista normativo? Il principale sostegno a questi investimenti viene dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). All’interno della Missione 2 “Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”, infatti, c’è una componente espressamente dedicata a economia circolare e agricoltura sostenibile. Economicamente parlando, sono disponibili 5,27 miliardi di euro, dei quali 2,8 sono riservati alla sostenibilità della filiera alimentare. Nella parte rimanente, 1,5 miliardi di euro andranno alla realizzazione di nuovi impianti di gestione dei rifiuti e ammodernamento di quelli esistenti.

In sostanza, si riduce il concetto di economia circolare alle pratiche di riciclo e di gestione dei rifiuti. Una direzione che torna a “svilire” l’economia circolare nella sua ampia caratterizzazione di economia del riciclo. Segnali positivi si intravedono tuttavia nelle previsioni di riforma prevista entro giugno 2022, che dovrebbero integrare i concetti di ecodesign, ecoprodotti, blue economy, bioeconomia, materie prime critiche.

Economia circolare in Italia: come la vedono le aziende

Eccoci al cuore del Circular Economy Report 2021: l’indagine sul comportamento e sulle opinioni delle aziende. Un’analisi dedicata alle realtà che operano in 6 mercati strategici, per valutare lo stato e la natura degli investimenti circolari.

I 6 macrosettori di riferimento

La classifica dei segmenti più performanti è calcolata sulla percentuale del campione che ha introdotto almeno una pratica di economia circolare.

I risultati nel seguente elenco:

La media vede un 44% degli intervistati (poco meno di 1 azienda su 2) impegnato in progetti di economia circolare. Il 40% di chi non l’ha ancora fatto ha intenzione di porvi rimedio in futuro.

Circular Economy Report: in che fasi si trovano le aziende italiane

Fonte: Circular Economy Report 2021, E&S Group

Chi fa economia circolare in Italia

In generale, le percentuali migliorano quanto evidenziato nella prima edizione del report. Gli “irriducibili” rappresentano il 34% degli intervistati e sono finalmente meno degli adopter. Ecco l’identikit dell’impresa che investe in economia circolare: si tratta di aziende di dimensioni maggiori, sia per fatturato sia per dipendenti, che partecipano (in misura di un terzo) a gruppi di lavoro, tavoli istituzionali, associazioni di categoria ed ecosistemi di simbiosi industriale che rinforzano le attività sull’economia circolare.

Guardando tuttavia all’auto valutazione del livello raggiunto nella transizione verso l’economia circolare, il punteggio medio è pari a 2,02 su una scala da 1 a 5. Insomma, siamo ancora alle fasi iniziali.

Le pratiche manageriali più diffuse

Cosa fanno questi adopter? Tra le pratiche maggiormente adottate sono:

Le attività di Design for Disassembly, Design out waste e Product Service System, invece, non sono ancora molto diffuse. Ciò significa che le aziende italiano si stanno attualmente concentrando sulle fasi di progettazione dei prodotti per ridurre l’impatto ambientale e riutilizzare i materiali all’interno dei propri sistemi produttivi.

Le pratiche manageriali circolari più diffuse in Italia

Fonte: Circular Economy Report 2021, E&S Group

Simbiosi industriale e altri progetti

Purtroppo, solo il 23% del campione intervistato dichiara di partecipare a un ecosistema di simbiosi industriale. Cosa significa simbiosi industriale? Il termine identifica l’interazione tra diversi stabilimenti, anche appartenenti a diverse filiere tecnologico-produttive, al fine di massimizzare il riutilizzo di risorse normalmente considerate scarti.

I vantaggi di questi ecosistemi? Le aziende aderenti parlano di risparmio di materiali di scarto (83%) e di CO2 prodotta (50%). Ma ci sono anche i risparmi ottenuti su trasporti e trasferimenti delle merci, secondo il 39% dei manager. Tra le altre pratiche legate all’economia circolare in Italia, il 29% degli intervistati effettua campagne di comunicazione e promozione di questo tipo di attività e altrettanti si dicono disposti a pensarci più avanti.

Quanto vale la circular economy

Se volessimo tradurre in cifre questi dati, nel periodo 2016-2019 per gli adopter la crescita media del fatturato è stata del 6%, di poco inferiore a quella dei non adopter (7%). Ma non lasciamoci ingannare da questa prima percentuale: i primi, infatti, hanno registrato un aumento medio più mercato dell’EBITDA, all’8% contro il 5% degli “irriducibili”. Ciò dimostra che l’introduzione di pratiche manageriali per l’economia circolare, pur caratterizzate da alti costi di investimento, porta benefici economici alle imprese.

Vantaggi e barriere dell’economia circolare in Italia

Quali sono i vantaggi della circular economy? La prima voce è legata al tasso di innovazione. Le aziende hanno infatti l’opportunità di introdurre nuove tecnologie, efficientare i processi e proporre prodotti inediti e sostenibili. Particolarmente rilevanti anche i risultati in termini di immagine e di organizzazione dell’impresa, uniti a quelli della riduzione dell’impatto ambientale. In questo contesto, possiamo continuare a parlare di circolarità: la riduzione delle emissioni e del consumo di risorse, infatti, contribuisce a migliorare l’identità del brand e dunque la sua competitività. La riduzione dei costi di produzione e la conseguente crescita non figurano invece tra i primi vantaggi indicati dalle aziende italiane. Sebbene infatti questi siano alla base dell’adozione di pratiche circolari, la loro effettiva realizzazione viene ancora percepita come un obiettivo.

I benefici della transizione circolare secondo le aziende

Fonte: Circular Economy Report 2021, E&S Group

Cosa ne frena invece l’adozione? La principale barriera è rappresentata ancora una volta dall’incertezza normativa. Ci sono poi gli ostacoli legati all’input e ai prodotti che ritornano all’impresa tramite la Reverse Supply Chain. Ma ci sono anche gli elevati costi d’investimento e tempi di ritorno necessari per sostenere la spesa. Interessante sottolineare la scarsa rilevanza accordata ai limiti tecnologici: le soluzioni per l’economia circolare in Italia ci sono, anche se i costi non sono accessibili a tutti. “E’ il momento di affrontare la sfida con una più decisa e coraggiosa volontà di azione da parte delle imprese e dei policy maker – conclude Davide Chiaroni -. L’esempio da seguire ce lo danno le imprese partner del report, scese in campo affinché l’economia circolare rappresenti la soluzione per integrare transizione energetica, sostenibilità e sviluppo economico e sociale”.

Stop alla vendita e affitto di case energivore? La Ue ci ripensa

Prima le indiscrezioni sulla nuova direttiva sul Rendimento energetico dell’edilizia, con l’inserimento di un drastico divieto di vendita e affitto degli immobili e case energivore, poi il dietrofront proprio su questo punto: fra i compiti della Commissione Ue non dovrebbe figurare l’occupazione dei media a suon di annunci clamorosi, eppure a Bruxelles l’andazzo sembra essere proprio questo…

Una spinta alla riqualificazione

È accaduto tutto in pochi giorni ed è comunque giusto sottolineare che, al di là della marcia indietro di cui sopra, il testo della direttiva che dovrà essere discusso e approvato dall’Europarlamento conferma la volontà dei vertici Ue di imprimere una forte accelerazione alla riqualificazione del patrimonio edilizio del continente con l’obiettivo di “trasferirne” gran parte in pochi anni all’interno di classi energetiche più performanti.

La direttiva già esistente sul Rendimento energetico dell’edilizia, nota con l’acronimo EPBD (Energy performance building directive), interessa gli edifici pubblici e privati e necessita di una revisione nella logica del raggiungimento della neutralità climatica per la metà del secolo, con l’obiettivo intermedio del taglio del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030.

La prima bozza del provvedimento, accanto ad una stretta sulle classi energetiche peggiori ammesse per gli edifici pubblici e privati, conteneva una dura parte sanzionatoria a garanzia dell’effettivo efficientamento del patrimonio edilizio continentale. Infatti, veniva previsto un meccanismo stringente di certificazione edilizia, il cui mancato rispetto avrebbe di fatto collocato l’immobile fuori dal mercato.

Modello prestabilito europeo

In particolare, l’introduzione dal 2026 di un modello prestabilito europeo, rilasciato solo con l’appartenenza a una classe energetica ammessa, avrebbe di fatto impedito la vendita, la ristrutturazione e anche l’affitto degli edifici privi della certificazione perché troppo “energivori”.

Un esempio? La previsione per gli edifici e le unità immobiliari private, contenuta nella direttiva, del rientro almeno nella classe energetica F a partire dal 2030 (classe E nel 2033) avrebbe reso invendibili e inaffittabili gli immobili con classe energetica G a partire dal prossimo decennio. Quindi una regolamentazione con gigantesche conseguenze, basti pensare, guardando all’Italia, che secondo i dati dell’ENEA il 35% delle abitazioni è collocato nella classe energetica peggiore, appunto la G. Se poi si sommano le abitazioni in classe F si arriva invece al 60% del totale…

Testo opportunamente “corretto”

Sono passati pochi giorni, come detto, e dalla bozza si è passati alla versione definitiva della direttiva rilasciata dalla Commissione Ue, con un testo opportunamente “corretto” dopo le preoccupazioni espresse sulla prima versione da molti Stati membri dell’Unione.

In realtà, il meccanismo che prevede scaglioni temporali per la riqualificazione energetica degli edifici nella sostanza non viene modificato rispetto alla bozza. Oltre a quanto detto relativamente agli immobili privati, per gli edifici pubblici il livello di performance energetica dovrà passare almeno al livello F entro il 2027 e almeno al livello E entro il 2030. Scompare del tutto, però, il sistema sanzionatorio attraverso il modello di certificazione, il cui mancato rilascio impedisce la vendita o l’affitto dell’immobile. Al momento le case energivore sembrano salve!

Nella versione definitiva della direttiva EPBD viene invece introdotto un meccanismo la cui applicazione concreta è affidata agli Stati Membri. Quest’ultimi dovranno identificare il 15% degli edifici che hanno performance peggiori per poi procedere alla loro riqualificazione energetica rispettando le tempistiche e le indicazioni delle classi energetiche già presenti nella bozza del provvedimento.